Qual è il significato del termine “documentare”? e quello di “ricordare”? e, ancora, quello di “trasmettere”. Bene, questi tre verbi apparentemente sciolti l’uno dall’altro, sono alla base della metodologia della ricerca storico-artistica. Si DOCUMENTA, infatti, l’esistenza di un bene, di un manufatto, sia materiale sia immateriale, a prescindere dal suo valore artistico o peggio ancora economico, perché le opere d’arte non dovrebbero aver un valore economico, ma solo quello di “testimonianze aventi valore di civiltà”.
Una volta documentata per iscritto e con ogni mezzo grafico e fotografico a disposizione l’esistenza di un Bene Culturale, si può essere certi quindi che verrà RICORDATO, resterà cioè impresso nella memoria storica di chi ha speso tempo ed energie per salvare dall’oblio o dalla non-conoscenza della sua esistenza. Ma il cosiddetto “scopritore” dell’esistenza del bene farebbe un lavoro fine a se stesso se non si preoccupasse di TRASMETTERE alla comunità civile la conoscenza e la documentazione da lui acquisita su quel determinato bene: così facendo tutta la comunità civile si dovrà ritenere depositaria e conseguentemente responsabile “di fronte alla società, al mondo civile e alle future generazioni” di quel determinato Bene Culturale. È per onorare questi sacrosanti principi, quindi, che gli Amici delle Gravine vogliono condividere con tutta la comunità un altro piccolo pezzo della storia del nostro paese, prima che il tempo completi inesorabilmente il suo lavoro su un manufatto che per la sua stessa natura è destinato a scomparire per sempre. Una foto scattata circa venti anni fa (foto 1) ci mostra in tutta la sua bellezza questo lacerto di affresco presente in una grotta diruta della Gravina Grande sita in una proprietà privata della Masseria Sant’Elia.
Si da di seguito una breve descrizione del frammento di affresco e la si confronti poi con la seconda foto, scattata pochi giorni fa…purtroppo, è nella natura intrinseca degli affreschi presenti nelle cripte rupestri la lenta ed inevitabile scomparsa. Ecco, quindi che ritornano i tre verbi iniziali: DOCUMENTARE, RICORDARE, TRASMETTERE.
L’immagine, molto rovinata, ma con ancora i tratti distintivi del Cristo Pantokrator (dal greco pán, tutto, e krátein, dotipi bizantini, per quanto possiamo capire dal lacerto presente in foto, è un’opera con i tenti ritrattistici, che però rimanda alla doppia natura del soggetto : il ritratto è quello di un uomo dallo sguardo severo ma benevminare con forza), rivela il profondo legame della nostra terra con il mondo orientale. Seppur tarda rispetto alla classica cronologia di riferimento di quest’iconografia, tuttavia manifesta tutti i caratteri dei suoi archeolo, dalla barba scura, che rende il suo aspetto autorevole. Ma l’areola sottolinea subito il carattere divino, in quanto è crocigera, e appartiene alla tradizione iconografica delle aureole in forma di scudo clipeato, ripreso dall’immagine del grande scudo caco dell’oplita greco. Cristo quindi come un guerriero, ma divino, per la presenza della croce, che contraddistingue la sua aureola da quella dei santi. La mano destra benedicente alla greca (le dita della mano di dispongono a formare il monogramma di Gesù Cristo: IC XC) e la mano sinistra che regge la Bibbia, nel complesso formano il tópos icomnografico del Cristo benedicente. Il mantello blu simboleggia la natura umana, l’abito rosso quella divina.
(Testo: Dott.ssa Viviana Nardò – Restauratrice)
Probabilmente siamo difronte una chiesa in grotta mai citata, dalle condizioni in cui riversano gli ambienti non si direbbe. Ora saranno gli studi che porteremo avanti a darci una risposta, almeno lo speriamo! Ne riparleremo.